DESCRIZIONE DEL CASTELLO • LA CASATA CHIARAMONTANA • DAI MONCADA AI LANZA • VIDEO DEL CASTELLO CHI ERA IL PADRE DI ANDREA CHIARAMONTE • LA COMPAGNIA DEI VERDI • HOME PAGE

LA CASATA DEI CHIARAMONTE

ORIGINI E VITA DELLA STIRPE DI QUESTA POTENTE E NOBILE FAMIGLIA

Vuolsi da non pochi scrittori che la famiglia Chiaramonte sia discesa pei rami di Carlo Magno, ma, lasciando agli apologisti la dimostrazione di così difficile assunto, sembra oramai accertata l'origine francese di tale lignaggio, dappoiché il trovarsi nei diplomi dei tempi normanno-svevi il cognome della famiglia scritto col francese Clermont e l'identità fra il blasone dei Chiaramonte di Sicilia con quella dei Clermont di Francia, innanzi al secolo XII°, mostra evidentemente che unico ne sia stato il ceppo.
Ritiene l'Inveges, sotto la guida d'autentiche scritture che due famiglie Chiaramonte siano venute in Sicilia : l'una coi Normanni, che si propagò fino al 1392 e anche dopo, l'altra ai tempi di Pietro d'Aragona, distaccandosi da quel ramo che a Napoli emergeva fra le nobili famiglie. Appartenne a quest'ultima quell'Arrigo Chiaramonte che, se è vero il racconto, sedusse la vergine figlia di Carlo d'Angiò per vendicarsi di quel re lascivo, che gli aveva oltraggiato l'onore coniugale, e poscia, per sfuggire allo sdegno del Re, venne a militare sotto le bandiere di Pietro d'Aragona in Sicilia. Con Simone suo figlio, pare che questa famiglia si sia estinta. L'altra invece, venuta in Sicilia, come sembra, coi Normanni, vi rimase per molto tempo, circondata sempre di ricchezza e di splendore.
Di essa ricordano gli storici un Ugo Chiaramonte, che fu presente all'incoronazione del Re Ruggiero; un Alessandro, un Riccardo e un Guglielmo Chiaramonte, vissuti ai tempi di Guglielmo II°; e, sotto Federico l’imperatore, il palermitano Federico Chiaramonte, il fratello Atanasio, patriarca di Alessandria, e il loro congiunto Nicolo, monaco cistercense, che nel 1219 fu elevato alla dignità cardinalizia ed eletto vescovo di Tuscolo. Si ha poi notizia d'una Marchisia Prefolio, nata a Girgenti e maritata con un cavaliere chiaramontano, che vuolsi sia stato il sopra ricordato Federico di Chiaramonte, e che, dopo aver dato alla luce un Manfredi, un Giovanni e un Federico, morì nell' anno 1300, lasciando ricordo di sé in una opera durevole, nel Monastero di S. Spirito delle monache cistercensi di Girgenti, da essa fondato e munificamente dotato.
Ma ricorda specialmente la storia Manfredi I° di Chiaramonte, figlio di Marchisia Prefolio e ceppo della famiglia, che nel secolo XIV° esercitò tanta influenza nei destini dell'isola. Uomo politico avveduto, valoroso combattente, ebbe dal Re i più importanti incarichi; per i servizi prestati venne eletto Siniscalco del Regno ed investito della Contea di Modica e della signoria di Caccamo, emergendo così fra i più potenti baroni dell'isola; nelle terre di suo dominio lasciò monumenti perenni della sua munificenza, ed è sua opera quello splendido palazzo di Palermo, noto sotto il nome di Steri, che attesta tuttora la grandezza di quella famiglia.
È ricordato anche, fra i più brillanti cavalieri di quel tempo, il fratello di lui Giovanni Chiaramonte, detto il vecchio. Molto ei si distinse nella famosa guerra del Vespro, lottando contro gli Angioini nella difesa di Siracusa e nelle battaglie di Ponza e di Napoli, nella liberazione di Caccamo e nella difesa di Palermo, nella presa del forte di Castellamare e in altre imprese che lungo sarebbe enumerare.
E, alla morte di Manfredi, il figlio di lui Giovanni, che per distinguersi dallo zio venne detto il giovane. Non degenere del padre per valore, passò una vita molto avventurosa, avendo pel primo iniziata quella guerra fratricida che funestò la Sicilia per moltissimi anni. Bandito dal regno per la sanguinosa vendetta presa contro il cognato Francesco Ventimiglia, che aveva ripudiata la moglie, passò ai servizi del nemico; ma, ritornato poscia nelle grazie del Re, prese parte in favore di esso alla battaglia di Lipari, in cui rimase prigione.
E dopo lui, morto senza figli, Manfredi o Manfreduccio, come viene comunemente inteso, figlio di Giovanni il vecchio, che riunì nelle sue mani le signorie di Modica e di Caccamo : uomo singolare, che assurse a straordinaria potenza coll'autorità che gli veniva dalle tante cariche coperte, coll'audacia e la temerità delle imprese, colle ricchezze in vario modo accumulate e colla mancanza d'ogni scrupolo, quando aveva un fine da raggiungere. Capitano e Maestro Giustiziere di Palermo dominava la città come un vero signore, avendo ai suoi ordini numerose squadre di armati e di sgherri, Partigiano influentissimo della fazione latina e in amichevole relazione con Matteo Palizzi Conte di Novara, a tal segno elevò la sua potenza, che la zecca di Messina battea moneta non più cosi l"effigie del Re, ma con lo stemma dei Chiaramonte intrecciato a quello dei Palizzi.
E, dopo Manfredi II°, Simone di lui figlio, spirito irrequieto, combattente audace, più volte ribelle al suo Re, contro cui seppe, non di meno, difendere colla spada in pugno i possedimenti confiscatigli.
E, dopo Simone, morto senza prole maschile, i due eredi, nei quali si divise l'avito patrimonio : Federico e Giovanni III°, l'uno Conte di Modica, l'altro Conte di Caccamo o di Chiaramonte, Signore di Bivona e di Sutera; e, alla morte di Federico, il figlio Matteo, oltre che di Modica, signore di Naro e di Delia, cavalieri tutti di virile coraggio e di sfrenata ambizione.
E infine, il più chiaro fra tutti, capo e rappresentante della famiglia, in mancanza di prole legittima, Manfredi III° di Chiaramonte, figlio naturale di Giovanni II°.
Manfredi di Chiaramonte, valoroso in armi, fiero ed ambizioso, geloso dell'altrui potenza, senza ritegni, senza riguardi, senza scrupoli, pareva riunire in sé tutte le virtù e i difetti della sua razza; ed in tempi in cui la feudalità imperava nell'isola, usurpando 1'esercizio del potere monarchico, era proprio destinato ad esercitare grande influenza negli avvenimenti del secolo.
Fin dalla sua prima gioventù lo troviamo Governatore per la camera regionale delle città di Lentini e di Siracusa. Fu a Lentini che Manfredi tolse in moglie Margherita Passeneto, figliuola di Ruggero Conte di Garsiliato, e di Costanza, figlia quest'ultima di Blasco d'alagona, venendo così ad essere cognato di quell’Artale con cui doveva tanto contendere l'egemonia dell' isola.
Fervevano allora, più che mai, le lotte fra latini e catalani. Prevalevano in quel partito Matteo Palizzi e i Chiaramonte, in questo il nobile Artale di Alagona. Manfredi, fiero partigiano della parzialità latina, fu nel 1350 incaricato dal Palizzi di portare aiuto ai Catanesi, che avevano perduto il castello di Adernò; poco dopo, per incarico dello stesso Palizzi, catturò nel porto di Siracusa le tre mila salme di frumento, che Artale di Alagona aveva estratte dal saccheggio di Licata per vettovagliare Catania; nel 1351 accorse a Palermo in compagnia del Conte Simone per liberare il congiunto Manfreduccio, rinchiuso nel forte di Castellani mare ; nel 1352 catturò una galea catalana con dieci mila scudi di mercanzie, che insieme ad altre passavano pel mare di Siracusa; e nella fine poi dell'anno stesso partecipò alla rappacificazione generale dei baroni del regno, intervenendo alle nozze che, qual pegno di pace, si celebrarono a Girgenti fra Simone Chiaramonte e Venezia Palizzi.
Più violenta, più decisiva fu la parte da lui presa agli avvenimenti, che seguirono l'assassinio del Conte di Novara. Dalla parte oramai dei Catalani era l' autorità sovrana, e ciò non di meno Manfredi accolse a Lentini il suo congiunto Simone, caduto in disgrazia del Re, fortificandosi in quella piazza. È mentre parea che colla morte di Palizzi la quiete dovesse rientrare nel regno, per opera precipua di Manfredi e Simone Chiaramonte si accesero quindi innanzi le più cruenti e funeste lotte civili. Cominciarono col devastare le campagne attorno
A Catania, ove risiedeva il Re con Blasco d'Alagona, portando in quelle contrade la desolazione e lo squallore. Dichiarati ribelli,
chiamarono in aiuto le armi napolitane, consegnando al Re di Napoli la città di Palermo, prima ad alzare la voce contro gli Angioini, prima ad accoglierli ora nelle sue mura; conndussero
una squadra a Milazzo, ove pel tradimento di Nicolo Cesareo s'impossessarono di quel castello; ma a questi successi dei ribelli baroni fecero riscontro le vittorie riportate dalle armi reali.
Polizzi si ribellò ai Chiaramonte, ritornando all'obbedienza del Re, e lo stesso fecero poco dopo Termini, Cefalù e Naro; Nicosia venne anche essa conquistata per forza di armi, e Giacomo Chiaramonte, che ne era il capitano, fu costretto a fuggire.
Incoraggiato da questi favorevoli eventi, Re Ludovico si determinò a conquistare Lentini, ritenuta la piazza forte dei ribelli per le importanti fortificazioni, che Manfredi aveva steso attorno alla città. Ma, appena posto l'assedio, fu costretto a levarlo nella speranza di rimetterlo all'arrivo dei soccorsi del Re di Aragona, che non giungevano mai. Nel frattempo Manfredi trasse aspra vendetta di quei di Lentini, che all' approssimarsi delle armi reali volevano tradirlo, e tornò a devastare le campagne di Catania, come i regii avevano messo a sacco tutto il paese circostante a Lentini.
Nel 1355 Siracusa si sollevò contro il governo di Manfredi, Un Zimbaldo, a capo di taluni cavalieri siracusani, tramò le prime fila ; ma Manfredi, sventato l'intrigo, pose ai ceppi Zimbaldo e lo condannò all'esilio. Ottenuta la grazia di ritornare in patria, Zimbaldo riprese il filo della congiura. Ben tosto i Siracusani scossero il giogo e, nel tumulto, uccisero i principali aderenti del partito chiaramontano. Manfredi era fuori di Siracusa, e i sollevati ebbero tutto il tempo di veder giungere i soccorsi di Orlando di Aragona, governatore di Mineo, e di Artale di Alagona. Quest'ultimo, ritornando a Catania, incontrò presso le grotte dei Rigitani le squadre di Manfredi e Simone, che erano uscite da Lentini per venirgli incontro. Ivi si combattè la più grossa battaglia di quei tempi. Ingaggiata con veemenza d'ambo le parti, proseguì con favore della parte dei Chiaramonte; ma infine, essendo pervenuti nuovi rinforzi all'esercito regio, Manfredi e Simone, che pure avevano data prova di grande valore, vennero soverchiati e poterono a stento salvare la vita.
Rimaneva ancora Lentini, il baluardo più forte dei Chiaramonte, e Ludovico, che aveva intanto ricevuto dalla casa d'Aragona soccorsi di denaro, volle trarre profitto della vittoria, ponendo l'assedio a quella piazza. Grandi furono i preparativi dell'una e dell'altra parte, e lungo fu l'assedio, interrotto spesso da sanguinose scaramucce; ma, non potendo raggiungere l'intento, il Re fu costretto per la seconda volta a ritirarsi, con grave perdita di prestigio innanzi agli occhi della feudalità imbaldanzita. I due Chiaramonte ne trassero profitto per devastare, a scopo di vendetta, le campagne di Mineo, Sortino, Caltagirone e Noto; e sì grave fu il flagello che piombò allora su quella fertile regione, che una spaventevole carestia ne fu la conseguenza.
Nel 1355 morivano Re Ludovico e il suo fedele Blasco d'Alagona, padre di Artale. Con Federico III° ed Artale d' Alagona s'ebbe nei primi mesi un po' di tregua; ma questa, conchiusa al principio del 1356, venne rotta nel corso dell'anno stesso dall'irrequieto Manfredi, il quale, vedendo Artale distratto dalle ostilità che gli moveva Enrico Rosso, concepì il disegno di riacquistare Siracusa, governata allora da Orlando d'Aragona. Quivi intatti egli venne a metter l'assedio, ma, comechè l'Aragona era ben preparato alla resistenza, stimò miglior partito ritirarsi.
Per opera di Nicolo Cesareo, governatore di Messina, stavasi conchiudendo una pace fra Artale ed i Chiaramonte ; ma mentre gli ambasciatori di costoro si recavano da Augusta a Catania, la barca che li trasportava venne catturata dai Catalani, sicché, irritato, Manfredi smise ogni pensiero di pacificazione e irruppe a nuove scorrerie e nuovi guasti. Unitosi in lega con Federico Chiaramonte e con Enrico Rosso, tentò di assalire Artale a Catania, ma fu un debole tentativo ; dato ascolto ai consigli di Nicolo Cesareo, che si preparava a tradire il Re per la seconda volta, lo coadiuvò nei suoi propositi, persuadendo il Rosso a cedere al Cesareo la fortezza di Mattagrifone presso Messina, ciò che indusse il Cesareo, sicuro oramai della città, a farne offerta al Re di Napoli Ludovico e alla Regina Giovanna.
Nella vigilia di Natale del 1356 entravano a Messina i Reali di Napoli, festosamente accolti dalla cittadinanza, che così facilmente si piegava a mutar bandiera, e quivi vennero a far loro atto di omaggio Manfredi, Simone e Federico Chiaramonte, ricevuti dai Sovrani con singolari onori, più di quanto a vassalli si convenisse.
Era intanto suprema aspirazione di Artale di Alagona abbattere Lentini, il baluardo più fermo della casa Chiaramontana; e pertanto, nella primavera del 1358, venne egli con grosso esercito a porre l’assedio a questa città ; ma Manfredi di Chiaramonte, che vi era ben preparato e che era riuscito ad ottenere soccorsi di vettovaglie dal signore di Sortino. benché di parte catalana, seppe anche questa volta stancare 1'esercito regio, che fu costretto a battere ritirata. Artale poscia si volse ad assaltare Vizzini, che ubbidiva ai Chiaramonte, e Manfredi per rappresaglia mise a rovina ed a saccheggio la città di Noto, il cui governatore, Giovanni Landolina, vi rimase ucciso.
Lungo sarebbe narrare le fasi di questa guerra fratricida, che si combatteva ad oltranza con preponderanza or dell’una e or dell'altra parte, ma con danno di tutti. Frequenti erano i cambiamenti nel governo delle città e terre dell' isola, che passavano dal dominio regio a quello dei ribelli, e viceversa; e notevoli al postutto furono le perdite subite dai Chiaramonte.
Manfredi, che per la parte importante presa a quegli avvenimenti era ornai considerato il capo della famiglia, comprese che, venendo a scarseggiare gli aiuti del Re di Napoli, vano sarebbe stato il resistere oltre, così si recò a Messina a prender accordi col cognato Nicolo Cesareo sulla convenienza di venire alla pace; ma il Cesareo, che molto temeva la vendetta del Re, lo distolse da tali disegni, e lo consigliò anzi a recarsi a Napoli per chiedere nuovi aiuti. Così fece Manfredi; e, mentre ei trovavasi in quella città, Artale di Alagona colse l'occasione per assediare nuovamente Lentini. Ritornava intanto Manfredi senza nulla avere ottenuto dal Re di Napoli e, in compagnia di Nicolo Cesareo, corse immantinente ad aiutare gli assediati. Anche questa volta riusci a salvarli, poiché l'Artale, non abbastanza forte in armi, all'annunzio delle forze nemiche, si ritirò a Catania per prepararsi ad una nuova offensiva. Infatti, ottenuto il concorso dei principali baroni di sua parte, nell'autunno del 1359 mosse con numerosa oste all'assedio di Lentini, il cui possesso tante volte gli era sfuggito.
Manfredi, che di ciò aveva avuto sentore, si era recato a Messina per provvedersi di grano e di altre vettovaglie; e già una nave carica di quella merce era arrivata ad Augusta, quando venne catturata da Artale d'Alagona. Poscia che ebbe conquistata e smantellata Augusta, Artale fece ritorno a Lentini; ed eludendo la vigilanza delle sentinelle fece di notte tempo penetrare in città taluni dei suoi, che aprirono le porte al resto dell'esercito. In tal modo Artale divenne padrone di Lentini, che, stanca del resto dal lungo assedio, era vicina ad arrendersi per fame. Rimaneva il forte castello, ove era rinchiusa la moglie di Manfredi colle sue figliuole; ma anche questa fortezza, dopo lungo assedio, venne presa nel marzo del 1360 per la viltà dei soldati che la custodivano.
La presa di Lentini fu un gran colpo per Manfredi e per la potenza dei Chiaramonte, onde essi si rivolsero al Re di Napoli per ottenere soccorsi. Soccorsi non ne giunsero nemmeno questa volta: venne bensì Manfredi, dopo la morte di Nicolo Cesareo, nominato da Ludovico, re di Napoli, governatore di Messina. E fu in tale carica che il Chiaramonte sventò una congiura, che si ordiva per dare la città al Re di Sicilia, traendo vendetta di molti, e condannandoli o alle carceri o allo esilio o alla morte.
Stanchi gli uni e gli altri dal lungo contendere, volgevano l'animo alla pace; e questa venne dapprima conchiusa fra i Chiaramonte e i Ventimiglia, i quali, deposti i loro antichi odi, la cementarono col matrimonio di Matteo Chiaramonte e di Giovanna, figliuola di Francesco Ventimiglia. Riuscì poi a quest'ultimo ridurre i Chiaramonte nella grazia del Re, su cui esercitava un grande ascendente; ma a questa conciliazione rimase estraneo solamente Manfredi, che continuava a governare Messina.
Bentosto, come al solito, la pace si ruppe; e ne fu causa il matrimonio fra Federico III° e Costanza d'Aragona, vagheggiato per molto tempo dai Catalani, ed ora ostacolato da Francesco Ventimiglia e dai Chiaramonte. E quando il re Federico, dopo le sue nozze, invitò i baroni del regno a fare atto di omaggio alla Regina, e da parte dei Ventimiglia e dei Chiaramonte non venne obbedito, Artale di Alagona, forte oramai di un grosso esercito, ricominciò le ostilità. E dapprima mandò il Conte Enrico Rosso ad assediare Messina. Artale questa volta abboccò all'amo slealmente tesogli da Manfredi. Questi gli aveva scritto che volentieri avrebbe ceduta la città a Federico; ed Artale si avvicinava già a Messina con sei galee, quando venne inaspettatamente assalito dalle macchine marziali innalzate presso il porto, e costretto con grave danno a ritirarsi. Allontanato il nemico, Manfredi uscì da Messina con nove galee e imprese a devastare il territorio di Milazzo; recatosi indi a Siracusa, s'impossessò di due galee catalane, e carico di spoglie fece ritorno a Messina.
Malgrado alcune trattative di pace, dovute alla iniziativa di Enrico Rosso e rimaste senza risultato, continuarono le offensive da parte dei Ventimiglia e dei Chiaramonte, sicché il Re, nel 1361, fu costretto ad attaccare Manfredi nella pianura di Milazzo.
Ma, sia che la morte del Re di Napoli Ludovico avesse scoraggiato i Chiaramontani, che molto da lui speravano, sia che il re Federico vedesse sempre da queste lotte, anche se di esito favorevole, diminuita notevolmente la sua autorità, parve a tutti matura l'idea della pace, e fu proposto un concordato, che gli ambasciatori dell'una e dell'altra parte discussero a Piazza e a Castrogiovanni, e sottoscrissero poscia il 14 ottobre del 1362. Da questa pace rimase escluso il solo Manfredi, siccome il ribelle più persistente all'autorità del Re, ma Manfredi dovette poi accorgersi che da solo non poteva più resistere, e che presto sarebbe stato obbligato a cedere Messina. Stimò quindi miglior consiglio lasciare questa città e ridursi in Calabria, mentre a Messina veniva dalla Regina Giovanna inviato un altro Governatore, Nicolo Acciaioli. Sperava in tal modo Manfredi di ritornare anch'esso nelle grazie del Re di Sicilia, e ciò gli fu agevolato dalla morte dell' Acciaioli, dappoiché senza colpo ferire potè egli, per quell' ascendente che ancora godeva, persuadere i messinesi a ritornare all'obbedienza del Re legittimo. A 17 maggio infatti del 1364 Federico III° entrava trionfante a Messina, ed il Manfredi, che aveva questa volta operato tanto per lui, venne, fra le cordiali accoglienze, reintegrato nel possesso dei beni che gli erano stati confiscati, rimesso al governo di quella città, ed onorato del l'insigne carica di Grande Ammiraglio. E non furono solamente queste le rimunerazioni dei servizi prestati. Nel 1365 Manfredi ottenne la concessione della contea di Mistretta, già in potere di Artale di Alagona, che ebbe in cambio di essa le terre di Paterno e di Francavilla. Nel 1366 venne nominato signore di Malta e di Gozzo, e quasi contemporaneamente signore di Eraclea, le quali terre erano allora in potere della Curia. Fu altresì signore di Cefalà, tenuta un tempo dal Conte Giovanni Chiaramonte suo padre, come risulta dall' atto di vendita che lo stesso Manfredi fece poi di tal feudo a Federico de Federico. Riteniamo che in questi tempi dovette anche ottenere la signoria di Castronovo e le terre di Mussomeli, e forse precisamente nel 1366, dappoiché nelle vicende posteriori, come vedremo, la terra e il castello di Mussomeli furono sempre uniti alla baronia di Malta e di Gozzo, quasi che fossero state una dipendenza di essa.
Nel 1367 Manfredi di Chiaramente col consenso del Re si trasferì a Palermo, la sede prediletta degli avi suoi, e quivi, essendo rimasto vedovo di Margherita Passaneto, conchiuse qualche anno dopo un secondo matrimonio con Eufemia Ventimiglia, figliuola del Conte Francesco, togliendo così una delle più pingue doti del Regno.
Mentre la città di Messina era in feste per le seconde nozze celebrate da Federico III° con Antonia del Balzo, figliuola del Duca d'Andria, Manfredi di Chiaramonte venne incaricato di sedare le turbolenze scoppiate a Trapani, ma non vi riuscì; tanto che il Re stesso dovette nel febbraio del 1374 recarsi in quella città, ove colla sua presenza potè rimettere l'ordine. Ritornando da Trapani, il Re volle passare da Palermo, che era sotto il governo di Manfredi, nella speranza di ricevervi la corona reale, ma s'ingannò. Essendosi i Chiaramonte allontanati dalla causa regia, in odio forse ad Enrico Rosso che governava allora Messina, Manfredi non fece alcuna accoglienza a Federico, che, senza porre piede a terra, lasciò le acque di Palermo e rientrò a Messina.
Potè poi il Re nello stesso anno riconciliarsi con Manfredi; e, dopo di avere viaggiato per l'interno dell'isola allo scopo di riacquistare le terre usurpate al Regio Demanio, si recò a Palermo, accolto questa volta da Manfredi cogli onori dovuti.
Abbiamo accennato alle pratiche fatte dal Re per ottenere la incoronazione, che mai non avvenne; alla vana chiamata dei Baroni per aiutarlo a riacquistare le terre demaniali; ai favori reali che Manfredi seppe anche questa volta scaltramente ottenere; al viaggio che il Re in compagnia di Manfredi, del Legato pontificio e di altri Baroni, intraprese pel Val di Mazzara allo scopo persistente di riacquistare i castelli usurpati; alla di lui permanenza nel castello di Mussomeli. ove riuscì a dirimere la questione fra Manfredi e Marchisia Doria circa al possesso di Castronovo; alla concessione ottenuta da Manfredi della Contea di Caccamo coi feudi di Pitirrana, S. Giovanni e Misilmeri, subito dopo la morte di Giovanni III° Chiaramonte, e quindi non crediamo di estenderci su questi fatti che servirono ad accrescere sempre più la potenza di Manfredi.
Non solamente a queste, ora accennate, si limitarono le concessioni feudali. Morto nel 1377 Matteo Chiaramonte Conte di Modica senza figli maschi legittimi, Manfredi ottenne immediatamente dal Re quella vasta contea, che comprendeva i feudi di Ragusa, Scicli, Comiso, Chiaramonte, Monterosso, Spaccaforno, Giarratana, Discari e Odogrillo. Ebbe del pari il possesso dei feudi di Naro, di Delia, di Mussaro, e, non si sa come, quelli anche di Palma, di Favara, di Guastanella, della Guadagna presso Palermo, di Rischillia presso Castrogiovanni, di Calatasudemi, Petra e Racalmari presso Girgenti, di Attilia, Guidomandri e Squitino presso Messina. Sappiamo infine, per testimonianza del Fazello, che egli fu altresì signore di Vicari e di Gibellini, ove fabbricò fortezze sulle quali impresse le armi chiaramontane.
Nel 1377 moriva Federico d'Aragona, lasciando l'unica figlia Maria sotto la tutela di Artale d'Alagona. Molto difficili erano le condizioni delia Sicilia nel momento in cui la giovinetta Maria prendeva le redini del regno. i vincoli dell'unità politica dello Stato, rallentati sotto i suoi predecessori, erano ormai sciolti del tutto; l'autorità sovrana non era che un nome: solo l'anarchia imperava di fatto. Delle funeste conseguenze, che tale stato di cose poteva produrre alla giovinetta regina, ben si accorse Artale d'Alagona, che, non ostante i difetti inerenti a quel tempo, era pure avveduto, moderato, sincero. E per evitare maggiori guai, in una riunione tenuta a Caltanissetta coi principali baroni dell'isola, si stabilì che il regno fosse governato, nel nome della regina, da quattro Vicari Generali, che furono eletti nelle persone dello stesso Artale di Alagona, di Manfredi di Chiaramonte, di Francesco Ventimiglia e di Guglielmo Peralta. In tal modo, scegliendosi a tali uffici i baroni più potenti del Regno, due di parte latina, il Chiaramonte e il Ventimiglia, e due di parte catalana, l'Alagona e il Peralta, s'interessavano costoro al buon governo dello stato, e a quella pace politica, che derivava allora dall'equilibrio delle avverse fazioni. Era un governo collettivo per cui ognuno, sotto la formula una cum sociis vicarius generalis , governava in una determinata provincia: l'Alagona nella Sicilia orientale, il Chiaramonte in buona parte del Val di Mazzara, il Ventimiglia nelle Madonie e il Peralta in quel di Sciacca.
Ma i semi della discordia, non ancora dispersi, dovevano germogliare anche in questa nuova politica situazione. Il progetto di matrimonio, ineditato da Artale di Alagona, fra la Regina Maria e Giovanni Galeazzo Visconti conte di Virtù, dispiacque agli altri Vicari. Guglielmo Raimondo Moncada, catalano d'origine, ma nemico dell'Alagona, riusci, con l'aiuto di Manfredi, a rapire di notte tempo la regina Maria dal castello Ursino di Catania, ove trovavasi sotto la stretta vigilanza di Artale, e, messala in sicuro nel castello di Licata sotto la protezione di Manfredi, partì alla volta di Barcellona allo scopo di convincere il re Pietro IV° di Aragona a trafugare in Ispagna l'augusta fanciulla, impedendo così il progettato matrimonio col Visconti, Re Pietro, che non aveva smesse le sue pretese sul regno di Sicilia, accettò le profferte del Moncada. Dopo due anni una piccola flotta, venuta apposta dalla Spagna, prendeva in consegna dal Moncada la regina, che trovavasi ancora nel porto di Licata; ma questa volta vi si oppose, non solo l'Alagona, intento sempre a vendicare l'onta del rapimento, ma anche Manfredi di Chiaramonte, cui non garbava l'allontanamento della regina con l'evidente pericolo della sottomissione dell' isola al Re di Aragona. Entrambi erano incoraggiati da papa Urbano VI° per odio verso la casa aragonese, che aveva aderito all'antipapa Clemente VII°. Non si credette quindi il Moncada abbastanza sicuro, quando Artale e Manfredi, ritornati in pace, si prepararono ad assaltare il castello di Licata, e stimò quindi opportuno trasportare la regina ad Augusta, come a luogo più sicuro. Quivi venne Artale a mettere l'assedio, che durò per ben due anni, fino a che la regina non venne liberata da un'altra squadra aragonese inviata in soccorso. L'augusta fanciulla venne allora condotta in Sardegna e quindi in Ispagna, ove era preparato, e ove poscia ebbe luogo, il matrimonio di lei con Martino il giovane, figlio del secondo genito del Re di Aragona, Martino duca di Momblanco.
Mentre si svolgevano questi avvenimenti, Manfredi di Chiaramonte faceva sua dimora nella città di Palermo, ove attendeva all'amministrazione dei suoi stati, dotando le città e terre soggette di quei superbi edifici che sono rimasti, fino ai nostri giorni, preziosi monumenti d'architettura. Fortificò infatti, ampliandola, quella parte di muraglia che si estendeva, ad oriente della città, presso il suo palazzo e che era stata danneggiata dagli anni e dalle guerre angioine; completò il palazzo dello Steri iniziato dall'avo suo Manfredi I°, decorando la grande sala degli stemmi delle più nobili famiglie della Sicilia, congiunte alla casa chiaramontana; e fabbricò altresì a Baida il monastero di Santa Maria degli Angeli, lasciandovi impresse le armi di sua famiglia.
Non furono meno sontuosi gli edifici che egli innalzò nei vari suoi feudi, e specialmente a Mussomeli, come vedremo in seguito. Ma l'impresa più memorabile, a cui va legato con onore il nome di Manfredi di Chiaramonte, è senza dubbio la conquista dell'isola delle Gerbe. Quest'isola, che misura 35 miglia di lunghezza e 25 di larghezza, era stata acquistata in feudo da Giovanni Chiaramonte, ed ora, cacciati i cristiani, si dava ai Mori che infestavano le coste della Sicilia. Manfredi di Chiaramonte, che dominava nelle spiagge del Lilibeo, esposte maggiormente a quelle scorrerie, concepì il disegno di una spedizione contro i Mori, ed in ciò ottenne, colle indulgenze del Papa, l'appoggio degli altri Vicari, e più specialmente il concorso delle repubbliche di Genova e di Pisa, non altrimenti che se fosse stato il capo d'uno stato. Nel 1388 infatti al comando d'una flotta di 22 navi, delle quali 12 genovesi e 5 pisane, si recò alla ricérca di quei Mori, e non solamente riuscì a ricacciarli nei loro paesi, infliggendo loro una sanguinosa sconfitta, ma s'impossessò anche dell'isola delle Gerbe, di cui serbossi la signoria, ottenendone da Papa Urbano l'investitura.
Questo notevole avvenimento accresceva molto il prestigio del Chiaramonte dentro e fuori Sicilia; e la sua potenza era tale che in confronto quella del suo rivale Artale di Alagona appariva assai pallida. Vicario Generale dei più temuti, primo Almirante del Regno, governatore di quasi tutto il Val di Mazzara, signore di molti e vasti feudi, possessore d'immense ricchezze e di palazzi e giardini a Palermo, a Girgenti, a Messina e a Castrogiovanni, capitano valoroso e, vincitore o vinto, intrepido e mai domo cavaliere, personaggio politico dei più importanti, sommamente carezzato dai papi, dai sovrani di Napoli e dai principi d'Aragona, arbitro assoluto della capitale, degli uffici, delle curie e delle giurisdizioni, Manfredi di Chiaramonte offriva l'immagine vera e completa di quelle principesche signorìe che, coi Visconti, cogli Scaligeri, cogli Estensi fiorivano in quel tempo nell'Italia settentrionale. Non mancava che il serto per esser sovrano, ed invero quasi da sovrano ei venne riguardato.
Margherita, vedova di Carlo III° Durazzo, madre e tutrice del re di Napoli Ladislao, avendo perduto il regno per opera di Ludovico II° d'Angiò, ed essendosi ridotta alla sola città di Gaeta, sperava con un ricco matrimonio di ristorare le strettezze finanziarie del figlio. Ed avendo inteso decantare le smisurate ricchezze di Manfredi e la singolare bellezza di Costanza di lui figlia, mandò un ambasciatore con due galee a richiedere la mano di costei pel Re di Napoli. La profferta fu accettata, e alla dote vistosissima, quale potea convenirsi a regina, aggiunse Manfredi ricchi e splendidi doni. La sposa venne quindi condotta a Gaeta dalle galee del re di Napoli, sulle quali si trovavano cavalieri della più cospicua nobiltà napolitana ; e a maggior decoro fecela Manfredi accompagnare da quattro sue galee. L'imponente corteo sbarcò a Gaeta il 4 settembre del 1389, e le nozze furono celebrate il giorno dopo fra onoranze e feste, che si ripercossero nella città di Palermo. D' allora in poi nulla più si ricorda di Manfredi, ed è a ritenere che, carico d' anni, abbia dovuto lasciare la somma degli affari ad un altro membro della famiglia, Andrea di Chiaramonte, che già si affacciava con successo nella scena politica. L'Inveges ricorda infatti che, fra i personaggi ai quali il duca di Momblanco, nell'agosto del 1390, comunicava il concluso matrimonio fra il figlio Martino e la regina Maria, eranvi Manfredi ed Andrea di Chiaramonte. Fino al 2 marzo 1391 appaiono lettere dello stesso Duca dirette al nostro Manfredi, il quale, come vuole il Maurolico, pare che fosse morto nei primi di novembre di quello stesso anno. Fortuna pel fiero signore che chiuse la vita all'apogeo di sua potenza, e non vide l'uragano, che s'addensava sul suo capo!
La storia potrà essere severa con lui, che congiurò spesso ai danni della sua patria, che per fini personali mutò spesso bandiera, che per irrequietezza di carattere sparse ovunque devastazioni e stragi, che per smodata cupidigia vessò i suoi vassalli, che per accrescere la sua potenza protesse e incoraggiò facinorosi d'ogni risma, ma non potrà non riconoscere l'animo fiero, il valore personale, la tenacia nei propositi, la vigoria dell' intelligenza, che fecero di lui il raggio più luminoso della potenza chiaramontana, l' espressione più geniale del feudalismo siciliano.
Morto Manfredi, gli successe, quasi come erede, nel vastissimo patrimonio e nella influenza politica Andrea di Chiaramonte. Tutti gli sforici dell'isola, fino al più illustre dei moderni, Isidoro La Lumia, ritennero Andrea figliuolo di Manfredi III° Chiaramonte, ma s'ingannarono. Dal testamento dello stesso Manfredi, che porta la data dell'8 settembre 1390, e di cui, or non è guari, venne pubblicato un estratto a cura del Pipitone Federico, rilevasi chiaramente che egli, fino al moménto di testare, e quindi fino a qualche anno prima della sua morte, trovavasi senza figli maschi. Se un figlio avesse avuto, non avrebbe lasciata erede di una buona parte del patrimonio la sua primogenita Elisabetta, moglie di Nicolo Peralta, colla sostituzione fidecommissaria a favore di quel figlio, o discendente di lei, che assumesse il nome e le armi dei Chiaramonte; e non avrebbe, nemmeno, nel caso che di lui non rimanessero né vi fosse speranza di rimanere figli maschi, lasciate anche eredi del resto del patrimonio le ultime tre figliuole. Andrea quindi non poteva essere figlio di Manfredi, e nemmeno bastardo, perché, anche come tale, l'avrebbe considerato nel suo testamento, egli, che per avere un erede del suo nome era costretto a ricercarlo nei figli e discendenti del genero Peralta.
Sembra a noi invece che Andrea fosse fratello di quell'Enrico che dopo la rovina del 1391 apparve, come ultimo raggio della potenza chiaramontana, negli avvenimenti del 1392, ciò argomentando dai fatti che seguirono l'arrivo dei Martini, e di cui andremo a far cenno. E, se è vero ciò che assicura l'Inveges, che Enrico sia figlio naturale di Matteo Chiaramonte, morto, come abbiamo detto, senza prole maschia legittima, dobbiamo ritenere che anche Andrea sia figlio naturale di Matteo.
Dello stesso modo con cui Manfredi di Chiaramonte, pur essendo un bastardo, potè elevarsi a capo della famiglia e riunire nelle sue mani l'avito patrimonio, che in più rami s'era diviso, così, alla morte, di Manfredi, potè riuscire ad Andrea, per quell'autorità che gli avevano dato gli avvenimenti, e la considerazione in cui era tenuto dai Martini, di riunire in sé tutti i possedimenti e tutta la potenza della famiglia, perfino il governo dell'isola nella qualità di Vicario Generale.
Ai notevoli avvenimenti, che in seguito si svolsero, prese pertanto parte precipua Andrea di Chiaramonte.
La notizia del concluso matrimonio fra la regina Maria e Martino il giovane destò nel mondo politico una grave agitazione. Temevano giustamente i baroni siciliani, che la venuta d'un re straniero e la preponderanza, che nelle cose del Regno avrebbe preso Martino il vecchio, Duca di Momblanco, deciso ad accompagnare nell'isola il Re suo figliuolo, avrebbero annientata l'indipendenza del regno. E se ne dolse principalmente Bonifacio, avversario della casa di Aragona, che nel 1390 inviò in Sicilia il Vescovo di Pozzuoli allo scopo di tenersi amici i baroni del Regno e specialmente i Chiaramonte, non troppo teneri del suo predecessore, e poscia, nel 1391, un altro nunzio in persona di Nicolo Sommariva per unire contro i Martini i quattro vicarì e gli Arcivescovi di Palermo e di Monreale. Dei quattro vicarì, primi eletti al governo dell'isola, era solamente rimasto Guglielmo Peralta. A Manfredi Chiaramonte era successo Andrea. ad Artale d'Alagona il fratello Manfredi, e a Francesco Ventimiglia il primogenito Antonio. Fra i quattro vicarì mancava l'accordo; ma prima ancora che il Sommariva fosse arrivato, è bene lasciare la parola al La Lumia, d'un ravvicinamente, d'un patto comune, che, composti i dissidi reciproci, unisse insieme gli animi e le armi nell'isola, pare si facesse iniziatore ed auspice il giovane Conte di Modica. Certo, il 10 luglio di quell'anno medesimo (1391) nel territorio di Castronovo, dipendente dalla casa Chiaramonte, in una chiesa campestre dedicata a S. Pietro, di cui esiste memoria fin dall'età dei Normanni, si adunava un'assemblea dei più illustri magnati. La solenne occasione avrebbe in altri tempi indotto a convocare un legai Parlamento, ove si trovasse debitamente rappresentato il paese: allora non poteva aversi che una conventicola prettamente feudale. V'intervenivano gl'invitati dalle estremità più lontane: quella pianura deserta sulle rive del Platani, circondata da monti, animavasi e popolavasi a un tratto di signori, scudieri, famigli, cavalli, procedenti a comitive ed a frotte: giungevano con amiche intenzioni ; ma il bellicoso apparato, che anche là dispiega vasi, era insito agli umori e alle usanze dell'epoca. Coi Vicarì v'erano tra gli altri il Conte Enrico Ventimiglia, (fratello del Vicario), Guglielmo Ventimiglia Signore di Ciminna, Bartolomeo e Federico d'Aragona discendenti per linea bastarda dal re Federico , Guglielmo Rosso, Blasco Alagona Barone di Manforte: dopo cinque secoli incirca il fatto della singolare adunanza vive ancora nella tradizione dei coloni e mandriani del luogo. In nome proprio e in nome dei propri fratelli, parenti, amici, aderenti e seguaci quei feudatari facevano una confederazione reciproca per procurare (siccome asserivano) l'onore e il servizio della regina Maria sovrana legittima, la sua restituzione in Sicilia, la sicurezza e la quiete del Regno secondo i voleri e i comandi della Chiesa: revocato perciò qualunque accordo che si fosse individualmente e separatamente fatto col re di Aragona, col duca e colla Duchessa di Monblanc ; non si ammetterebbe alcun principe, o signore, o esercito straniero che intendesse occupare la signoria dell'isola: e poiché era di pubblica fama che il Duca di Monblanc avesse determinato di recarsi con poderosa oste in Sicilia, sotto colore di metterne in possesso la regina, giuravano di non ricevere il duca né le genti di lui:... se il re di Aragona ed il Duca credessero bene astenersi, e permettessero alla regina venir sola nel paese, l'accoglierebbero sì come buoni vassalli; e se costei vi giungesse in effetto e risalisse nel soglio dei propri antenati, si " reggerebbe col consiglio dei quattro vicarì .
L'Amico, parlando di Mussomeli e della rocca ivi presso fabbricata da Manfredi di Chiaramonte, dice che questi raccolse in essa un'adunanza di signori siciliani, istigando anche papa Bonifacio. Ciò è confermato dalla tradizione del luogo, che anche oggi chiama dei baroni quella vastissima sala che trovasi a sinistra dell'atrio superiore del castello.
Se bisogna prestar fede completa a questa notizia, dobbiamo ritenere che la riunione dei magnati nel castello di Mussomeli ebbe luogo nel 1390 o nei principi del 1391, quando era ancor vivo Manfredi di Chiaramonte, e propriamente all'arrivo del Vescovo di Pozzuoli, inviato in Sicilia da papa Bonifacio per eccitare, come abbiamo detto, l'alleanza dei baroni contro la scomunicata casa d'Aragona. Se tale notizia invece
si volesse riferire all' epoca in cui i baroni tutti giurarono di mantenersi fedeli a Maria, ma di respingere l'intervento del duca di Momblanco, per noi, che seguiamo la narrazione del Surita e del La Lumia, non Manfredi, ma Andrea di Chiaramonte avrebbe indetta quell'adunanza che dovette, in via preliminare, occuparsi delle cose che furono poscia, o immediatamente, deliberate nella riunione di Castronovo. L'una ipotesi del resto non esclude l'altra, perché, data la grande affluenza dei baroni alla riunione del 10 luglio, non tutti potevano prendere alloggio nella vicina Castronovo, ed era quindi necessario che Andrea Chiaramonte, signore anche della terra di Manfreda, desse ospitalità nel superbo castello a parecchi dei baroni. che la mattina del 10 luglio scesero in brillante comitiva nel luogo del convegno. ,
La riunione di Castronovo non sortì l'effetto desiderato, dappoiché quei propositi solennemente giurati venivano distrutti dalle pratiche occulte del Duca di Momblanco, la cui politica era quella di piegare ad una ad una le verghe che, unite in fascio, non sarebbe riuscito a rompere. E già molti dei baroni cominciarono a disdire l'accordo, se non apertamente, di soppiatto, ingannandosi l' un l'altro. Se la deliberata resistenza alla casa d'Aragona era stata giurata dai baroni, non tanto per la indipendenza della Sicilia, quanto per la tema che le loro possessioni e le loro cariche andassero in mano degli Spagnuoli, man mano che essi vedevano la possibilità del trionfo dei Martini, cedevano alle loro lusinghe e passavano dalla loro parte, perché cosi solamente potevano assicurare la loro privilegiata posizione.
Nell'intento di preparar meglio il terreno, il Duca di Momblanco aveva inviato con ampi poteri in Sicilia Caldo di Queralta e Berengario di Cruillas. Alla colluvie di concessioni, di onorificenze e di promesse, talora bugiarde, che venivano da parte di costoro, cedevano a poco a poco i signori dell'isola. " Torvi, sdegnosi, dice il La Lumia, determinati apertamente alla lotta, rimanevano quasi soli i Chiaramente. Andrea, il " nuovo Conte di Modica, s'era sentito ancor egli vacillare per poco: s'era associato a Manfredi Alagona nel mandare i propri omaggi in Ispagna, poi, pentitene, aveva rivòcata la nave, " e d'allora con piglio sprezzante vide quei baroni affaticarsi in venali trattative colla corte novella, e intorno al Queralta " ed al Cruillas darsi briga con docilità premurosa.
Nel marzo del 1392, pochi mesi dopo che si celebrarono le nozze fra Maria e Martino Conte di Exercia, la reale coppia e il padre del Re, Duca di Momblanco, muovevano con potentissima armata a prender possesso del regno. Erano su quelle navi molti della più ragguardevole nobiltà spagnuola, come se venissero ad una terra di conquista. Fra essi ci occorre ricordare il Grande Almirante Bernardo Caprera, istigatore e promotore dell'impresa, e poi Don Pietro e Don lacopo figli del Conte di Prades e, dei siciliani, Guglielmo Raimondo Moncada Conte di Agosta, i fratelli e i figli di lui.
L'armata giunse a Marsala il 22 marzo 1392, ricevuta con devota accoglienza dai due vicari Peralta e Ventimiglia, e da non pochi feudatari. Signori e rappresentanti delle città venivano a fare omaggio ai nuovi sovrani; ed a quei che non venivano, come al Conte di Modica, il Duca di Momblanco scriveva, tacendone i titoli, di venire a prestare a Mazzara il militare servizio, pena la confisca dei beni. Andrea Chiaramonte, d'accordo cogli Arcivescovi di Palermo e di Monreale, inviò messaggeri per entrare in negoziati, ma i messaggeri non tornarono ed egli non ebbe che risposte evasive. Chiese allora un salvacondotto per inviare altri ambasciatori, ma il salvacondotto non venne. il Duca intanto muoveva alla volta di Palermo e intimava ad Andrea di tenergli ubbidienti e pronte le città demaniali. Allo scopo d'intimorire e punire i renitenti e di acquistarsi il favore di molti, faceva larghe concessioni di feudi, togliendoli ai nemici. Ad Alcamo il 4 aprile gratificò Guglielmo Raimondo Moncada Conte d' Agosta della contea di Malta e del Gozzo e delle terre di Naro, Delia, Sutera, Mussomeli, Gibellini, Favara, Mussaro, Guastanella e Misilmeri, togliendole fin d'allora ad Andrea di Chiaramonte che dopo la morte di Manfredi le possedeva; ed a favore dello stesso Conte d'Agosta dispose di tutte indistintamente le terre pertinenti ad Andrea, come se fosse stata pronunziata contro di lui la confisca dei beni.
A 5 aprile la corte era a Monreale, e la Domenica delle Palme l'esercito regio scendeva a Palermo, ove Andrea Chiaramonte con 500 cavalli e numerosi fanti trovavasi preparato alla difesa. Oramai la coscienza nazionale dell'isola veniva, come sempre, ad essere rappresentata dalla città di Palermo. E, per fiaccare l'ultimo baluardo della siciliana indipendenza, quivi venne il Duca, dopo un'ultima intimazione, a porre l'assedio. Si misero in uso le artiglierie del tempo, e non si risparmiarono i vandalici guasti alle circostanti campagne. " II " Conte di Modica, parla ancora La Lumia, pare che non " si risparmiasse più che l'ultimo dei suoi uomini d'arme : " difendeva una causa che era proprio per lui, e nondimeno " poteva vantarsi quasi campione e vindice della causa nazionale dell'isola.
L'esercito regio andava sempre più ingrossando per l'accorrere dei baroni, e Manfredi di Alagona, che finora non era uscito in campo, venne anch'esso da Catania a portare i suoi soccorsi. Le città demaniali inviavano ambasciatori a fare atto di omaggio ; le terre che erano sotto il rettorato o la signoria dei Chiaramonte cadevano, come Licata, o vacillavano, come Girgenti, certo non soccorrevano ; e si può dire che tutta la Sicilia era oramai a favore degli Aragonesi e ai danni d' un solo.
Andrea che non aveva sopperito abbastanza alla necessità dell'assedio, abbandonato dai suoi, stretto dalla fame, tradito dallo stesso Pretore della città, inviò uno dei giudici del Comune ad aprir trattative. Si venne ad una conciliazione : Andrea assolto ritornar doveva all'obbedienza sovrana, e un indulto doveva coprire il passato ed estendersi sulla città di Palermo e sugli altri luoghi che non avessero fatto atto di sudditanza formale. Il 17 Maggio infatti Andrea compariva al cospetto della Regina, che aveva preso alloggio in una villa dei Chiaramonte a S. Erasmo, e vi riceveva liete accoglienze. L'indomani egli e l'arcivescovo di Palermo erano ricevuti dal Duca: ma questi con un vile pretesto li fece arrestare, ordinando fosse pure catturato il fratello di Andrea, Enrico Chiaramonte. Pretesto era stata la voce, fatta spargere ad arte, che nel giorno,dello ingresso a Palermo della Regina, avevano i Chiaramonte preparata una sommossa contro i Catalani. Dopo aver preparata la città con occulte intelligenze, e annunziata alle terre del Regno la presa di Palermo e la cattura di Andrea, la Regina e i Duchi aragonesi entravano solennemente a Palermo fra gli applausi della marmaglia " che " sempre ed ovunque ha per chi soccombe un insulto, per " chi vince un applauso. E mentre una pioggia di concessioni allietava l'animo cupido degli avventurieri catalani, fino a sostituire a Ludovico Bonit Arcivescovo di Palermo un Alberto di Villamarin, magistrati e giuristi, all'uopo delegati, giudicavano del delitto di Andrea. Il primo Giugno i Giudici fecero la loro relazione. Fu condanna di morte, come doveva aspettarsi, e venne eseguita lo stesso giorno nella piazza Marina di Palermo, innanzi a quello Steri, che era stato per tanti anni la sede prediletta della di lui famiglia.
La morte di Andrea di Chiaramonte, di questo ardito cavaliere, rimasto in quei tempi, fra tante viltà e tristizie, una fugace manifestazione del valore siciliano, segnò il crollo di quella nobile famiglia, che per tanto tempo aveva influito sui destini dell' isola.
Tutti i beni, si feudali che burgensatici, che un dì appartenevano a Manfredi, e che alla di lui morte erano passati, benché non si sappia come, ad Andrea, prima o dopo la di lui decapitazione furono confiscati e concessi a persone ligie alla Corte. La vedova Isabella si ritirò a Girgenti in quel monastero di S. Spirito che era stato fondato dalla madre del primo Manfredi, ed ivi visse fin dopo il 1434. L'unico figlio Giovanni che, ancor fanciullo, mentre splendea la potenza del padre e durava il tempo della blandizie, era stato promesso dal Duca di Momblanco alla figlia del suo congiunto D. Ferrante Lopez di Luna, fu alla morte di Andrea, dato in consegna al Capitano della città di Catania, e poscia alla moglie di Guglielmo Ventimiglia Barone di Ciminna di lui zia. Nel 1414 menava ancora la sua oscura esistenza, perché lo veggiamo ricordato nel testamento di Antonio Moncada, Conte di Adernò. genero di Matteo Chiaramonte.
Delle tre figlie di Manfredi, Elisabetta ed Eleonora sfuggirono al rio fato che travolse la loro nobile schiatta. Elisabetta, la maggiore, sposata a Nicolo Peralta Conte di Caltabellotta.
Degli altri parenti del decapitato Conte di Modica, Filippo Chiaramonte, che era stato stratega di Messina al 1384, fu forse quello che, secondo la tradizione, all'annunzio della rovina della casa, montato a cavallo andò a tutta corsa a precipitarsi nel mare.
Il solo che apparve, come meteora, negli avvenimenti della fine di quel secolo fu Enrico Chiaramonte, fratello di Andrea. Trovandosi egli a Palermo in difesa della nobile causa che sosteneva la sua famiglia, nel giorno stesso della cattura di Andrea, riuscì a fuggire. Si recò a Napoli, donde vari colpi di mano tentò contro gli esecrati Martini. Nello aprile del 1393, quando il Duca dovette lasciar Palermo per assediare in Aci Artale di Alagona, riuscì ad Enrico muovere, con una galea armata, da Pozzuoli e presentarsi a Palermo. I Palermitani, incoraggiati dalla presenza del Chiaramonte, proruppero in aperta sommossa, e in breve, per contagio, agitosi tutto il Val. di Mazzara, e alcune terre degli altri valli. Oramai, svaniti gli equivoci, era nella convinzione di tutti che il governo dei Martini era preludio alla dominazione straniera, che doveva fare della Sicilia una provincia d'un lontano regno. I feudatari siciliani si erano accorti del resto che i principali feudi, le cariche più importanti erano state affidate ai Catalani ; tutti poi, nobili e plebei, e quelli specialmente di timorata coscienza, mal soffrivano che i Martini tenessero la Sicilia ancora nella via dello scisma. In quéste condizioni d"animo potè facilmente Enrico ritornare a capo della città di Palermo, che conservava ancora grata memoria della famiglia Chiaramonte, per le prove di magnanima generosità che essa le diede. Ed Enrico infatti fu subito acclamato, come i suoi predecessori, Rettore della città, non disturbato nemmeno dal Duca di Momblanco, che aveva per le mani la sottomissione della Sicilia orientale.
Ma un avvenimento nel trono di Aragona diede il crollo a questa rivolta. Moriva Giovanni re di Aragona, e gli succedeva il fratello Martino Duca di Momblanco. Questo semplice annunzio e il timore che Martino, oramai forte in armi, potesse riacquistare le città perdute, valse a far desistere molti dai propositi di riscossa, ond'è che, contro il desiderio di Enrico, il Senato palermitano presentò al Duca i capitoli di sottomissione e di pace. Enrico, non avendo più nulla a sperare dalla sua Palermo, dopo di avere tentato ancora invano di eccitare lo spirito d'indipendenza e di rivolta, abbandonato dai suoi e minacciato dalla mutevole plebe, trovò lo scampo nella fuga. Arroccatosi nel castello di Caccamo, ove tenne per tanto tempo testa ai suoi nemici; ma anche di là dovette partirsene ed esulare, come sembra, a Gaeta, ove finì i suoi giorni.

 

TORNA ALLA PAGINA IL CASTELLO        TESTO TRATTO DA " MUSSOMELI: DALL'ORIGINE ALL'ABOLIZIONE DELLA FEUDALITA' " DI GIUSEPPE SORGE